‘Ebree ed ebrei che odiano se stessi’, questo è, in estrema sintesi, il giudizio che i governanti di Israele danno di quanti osano criticare la loro politica di guerra genocida a partire dalla loro appartenenza al mondo ebraico. Semiti che vengono trasformati in antisemiti.
Eppure questo è un mondo che dimostra, in diverse delle sue componenti, ancora una volta la sua vitalità. Ne è un esempio l’attività svolta dalla rete ‘European jewish for Palestine’, costituita formalmente nel settembre scorso, a conclusione di un percorso iniziato a Parigi nel marzo 2024 quando 20 gruppi ebraici provenienti da 14 paesi europei, nel corso di un convegno organizzato in solidarietà con il popolo palestinese, si sono incontrati ed hanno deciso di intraprendere una strada comune, schierandosi a fianco del popolo palestinese.
I principali gruppi che fanno parte di questa rete – che si ispira alla statunitense ‘Jewish Voice for Peace‘, protagonista di molte manifestazioni ed occupazioni negli USA – sono il Jewish Bund di Berlino, la francese Tsedek, l’italiano Laboratorio ebraico antirazzista, il gruppo danese Jews for Just Paece, il belga Ajab e De-Colonizer.
Opposizione al genocidio, alla pulizia etnica, all’occupazione coloniale e all’apartheid, sono i cardini dell’azione di questa associazione che non dimentica di denunciare l’uso strumentale dell’antisemitismo per mettere a tacere ogni voce di critica al comportamento dello Stato di Israele, non a caso infatti i gruppi che compongono questa associazione sono state tacciati di antisemitismo. Significativa è anche la critica che viene sviluppata nei confronti delle dirigenze delle comunità ebraiche europee, da sempre allineate, senza se e senza ma, con lo Stato di Israele e che pretendono di parlare a nome di tutti gli ebrei ignorando ed oscurando ogni forma di dissenso. Così com’è particolarmente significativa il rifiuto dello Stato di Israele come centro del mondo e della vita ebraica per la quale si cerca di creare comunità ovunque, al di là dei confini e delle tradizioni.
‘Not in my name‘, non nel mio nome, è uno degli slogan urlati nel corso delle manifestazioni dalle centinaia di migliaia di ebrei che – secondo i promotori dell’EJP – sono scesi in piazza contro la guerra.
L’obiettivo principale odierno per l’EJP è lo stop all’invio delle armi occidentali a Israele denunciando nel contempo la complicità di Stati Uniti ed Unione Europea nel massacro in corso; in prospettiva l’obiettivo è quello di affermare l’eguaglianza dei diritti per tutti gli abitanti della Palestina storica dal fiume Giordano al mare Mediterraneo.
Anche se ancora minoritarie, le voci di dissenso e di opposizione aperta alle politiche di genocidio fisico e culturale in corso si fanno sentire anche all’interno dello Stato degli ebrei come si è voluto autodefinire con la Legge fondamentale del 2018.
È di questi giorni la dichiarazione di 130 riservisti dell’esercito di Tel Aviv che hanno affermato di non voler più prestare servizio fino a quando Netanyahu rimarrà al potere. “Non sono più disposto a uccidere o a morire per un governo che non rappresenta né me né gli interessi del Paese”. E se questa dichiarazione si collega unicamente alla questione della necessaria trattativa con Hamas per la liberazione degli ostaggi, vanificata dal tentativo in corso di pulizia etnica di Gaza, rappresenta comunque un segnale significativo – insieme alle continue manifestazioni di piazza – delle crescenti contraddizioni all’interno della società israeliana.
Refuser Solidarity Network, che associa i/le renitenti al servizio militare, continua a documentare casi di oppositori all’occupazione dei territori palestinesi e alla guerra, come pure Breaking the silence che raggruppa i veterani militari e le organizzazioni per i diritti civili che operano in Israele come B’Tselem o Addameer che monitora e denuncia le condizioni dei detenuti in Cisgiordania: attualmente 10100 politici, 50 donne, 270 ragazzi, 3398 amministrativi (quelli che non necessitano di accuse precise per essere in carcere ma che ci rimangono per volontà delle truppe di occupazione militare). Altre esperienze come quella di Parents Circle Families Forum che raggruppa i familiari, israeliani e palestinesi, di vittime della violenza sia di atti di terrorismo che di operazioni militari rappresentano un ponte importante di riconoscimento reciproco al di là di confini, culture e tradizioni.
Presenze quindi significative – e per questo oggetto di violenze e rappresaglie da parte degli estremisti fondamentalisti e fascisti – ma non sufficienti al momento per fermare il progetto espansionista e genocida del governo israeliano. Presenze che testimoniano la persistenza di un’umanità che non si fa travolgere da miti suprematisti e nazionalisti e che delinea una possibilità di uscita da un’aggressione devastante e criminale.
Un progetto che si sta chiarendo sempre più, così come è stato illustrato dallo stesso Netanyahu alla recente assemblea dell’ONU. Un progetto basato su più fasi, prima la distruzione delle milizie sostenute dall’Iran, poi l’accordo di pace con l’Arabia Saudita sulla scia dei Patti d’Abramo di quattro anni fa. La mappa mostrata da Bibi ai pochi delegati presenti mostrava il compimento del progetto: la realizzazione della ‘Grande Israele’ comprendente Cisgiordania, Gerusalemme est e le alture del Golan, ‘pulita’ dalla presenza palestinese.
La normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi del golfo – più che interessati a fare affari con l’ingombrante ma utile vicino, piuttosto che a farsi carico della risoluzione della ‘questione’ palestinese – giocando anche sul conflitto latente tra questi e l’Iran, è alla base del progetto del sionismo politico e religioso. La tappa precedente è stata quella dell’introduzione della Legge Fondamentale nel 2018 che ha conferito solo agli ebrei, residenti o meno, il diritto all’autodeterminazione, stabilito l’ebraico come unica legge ufficiale ed esteso la sovranità israeliana sugli insediamenti occupati della Cisgiordania. Già allora si poteva ben capire che la soluzione dei due Stati era stata definitivamente accantonata, alla faccia di tutte le delibere dell’ONU – ‘una palude di bile antisemita’, secondo la definizione di Netanyahu – e del diritto internazionale (che, come al solito, è sempre il diritto del più forte).
Tra i palestinesi intanto cresceva la consapevolezza che da parte di Israele non c’era alcun piano di soluzione pacifica del conflitto che 57 anni di occupazione militare hanno implementato e dopo 76 anni di pulizia etnica, aperta o strisciante. E se in Cisgiordania il governo militare del territorio ha fiancheggiato i coloni nella loro opera di conquista del territorio e ha imposto direttive sempre più costrittive nei confronti della popolazione urbana e rurale con l’erezione di muri, di percorsi obbligati, di continui checkpoint, contando sulla collaborazione della borghesia palestinese stretta intorno ad un’Autorità nazionale (ANP) sempre più corrotta e isolata, a Gaza 17 anni di assedio hanno portato ad una condizione di vita sempre meno sopportabile con la fornitura di elettricità ridotta a poche ore, il 24% dell’acqua da bere inquinata o salata, l’80% dei laureati disoccupati, l’economia ridotta al lumicino e sostenuta quasi unicamente dagli aiuti internazionali.
Parallelamente l’antagonista di Israele nella regione, l’Iran – con i Patti d’Abramo e i negoziati di pace in corso con l’Arabia Saudita – ha visto ridotta la sua possibilità d’influenza alla quale ha risposto con il rafforzamento delle milizie in Libano e in Siria.
Solo analizzando questa situazione si può arrivare a inquadrare il 7 ottobre e l’occasione che si è aperta (se non abilmente assecondata) per un’accelerazione del processo di espulsione della popolazione palestinese dai loro territori – giocando anche sulla frammentazione del quadro politico – e per arrivare ad una resa dei conti con l’Iran, con il concorso degli Stati Uniti e dell’UE in una guerra ancora più devastante di quella in corso, tesa soprattutto a distruggere le sue potenzialità nucleari.
Al momento contiamo i morti, quelli del 7 ottobre – ad opera di Hamas e delle altre formazioni operanti a Gaza – con i suoi quasi 1200 caduti israeliani, tra soldati, poliziotti, abitanti dei Kibbutz, giovani, e quelli che sono venuti e continuano a venire ad opera dell’esercito israeliano: bambini, donne, giovani, miliziani in un numero abnorme calcolato in più del 7% della popolazione residente. A Gaza quasi l’80% delle case è distrutto o danneggiato, le università non esistono più, quasi tutte le scuole sono state colpite e demolite, 34 su 36 ospedali sono fuori uso; non solo, anche moschee, chiese cristiane, edifici storici, archivi sono stati distrutti nel tentativo di cancellarne storia e cultura. Chiusi i valichi con l’Egitto, impedita la navigazione, 1,7 milioni di persone sono ristrette in un’area che non supera i 19 chilometri quadrati, sottoposti a bombardamenti e a condizioni di vita sempre più drammatiche.
Sono cifre insopportabili perché dietro ogni numero c’è una vita, un essere con tutte le sue potenzialità. Sono cifre da azzerare. E dobbiamo farlo intensificando il movimento di solidarietà nei confronti della resilienza e della resistenza popolare palestinese avendo ben chiaro che dove persistono interessi di Stato e poteri religiosi difficilmente si arriverà ad una soluzione definitiva.
La proposta anarchica è ben nota ed è basata su pochi ma chiari principi: distruzione dell’apparato statale, patriarcale e di classe, scioglimento di ogni esercito, autorganizzazione e federalismo, internazionalismo, solidarietà. In Medio Oriente c’è chi li condivide e li sostiene sia all’interno della lotta anticoloniale e di liberazione palestinese sia della società israeliana. Non lasciamoli soli.
Massimo Varengo